Dopo quasi 15 anni di estenuanti trattative, le Nazioni Unite hanno finalmente approvato uno storico accordo per la protezione dell’Alto Mare, una vasta porzione di pianeta ad alto valore biologico ed ecologico, che offre habitat per numerose specie studiate solo in parte.
Ci sono voluti ben 15 anni di discussioni, 4 negoziati formali e la collaborazione di 52 paesi per arrivare alla realizzazione del High Seas Treaty, uno storico trattato a firma dell’ONU che definisce i meccanismi di conservazione ed uso sostenibile della biodiversità marina nelle aree che restano fuori dalla giurisdizione nazionale. È questo il caso dell’Alto Mare, area presente oltre le 200 miglia nautiche dalla costa degli stati che finora ha ottenuto poche attenzioni dal punto di vista conservazionistico.
Zonazione dello spazio marittimo con le due macro suddivisioni: acque territoriali e acque internazionali. Immagine realizzata da Camilla Tommasetti per IOC-UNESCO.
Per quanto riguarda il High Seas Treaty, le negoziazioni si sono focalizzate essenzialmente su 4 aree tematiche: (1) risorse genetiche marine; (2) strumenti di gestione territoriale, comprese le Aree Marine Protette; (3) rafforzamento delle capacità e trasferimento tecnologico; e (4) valutazioni di impatto ambientale.
I punti 1 e 2 rappresentano peraltro una novità di assoluto rilievo nel panorama giuridico internazionale poiché per la prima volta ci si occuperà di risorse genetiche marine e di aree marine protette in Alto Mare. L’Unione Europea si adopererà per garantire che ciò avvenga rapidamente e, per aiutare i paesi in via di sviluppo a prepararsi per l’attuazione del trattato dell’Alto Mare, ha messo a disposizione circa 40 milioni di euro.
E’ bene ricordare che l’Alto Mare rappresenta circa i due terzi degli Oceani ed il 95% del volume degli habitat del pianeta, offre habitat a più di 230.000 specie (considerando solo quelle conosciute) e svolge servizi ecosistemici fondamentali quali la produzione dell’ossigeno che respiriamo (circa una metà) e il sequestro dell’anidride carbonica, il principale gas serra il cui aumento antropogenico sta causando il cambiamento climatico.
L’adozione di High Seas Treaty dell’ONU è dunque un passo decisivo essenziale per l’attuazione del Quadro Globale per la Biodiversità, accordo raggiunto durante il COP15 di Kunming-Montreal, che impegna i Paesi firmatari a proteggere almeno il 30% degli oceani e a garantire il ripristino del 30% delle aree degradate entro il 2030. Questo è sicuramente un obiettivo ambizioso ed importante, considerando che attualmente solo l’1% degli Oceani risulta protetto. Questo trattato permetterà di ridurre l’impatto cumulativo delle attività in Alto Mare come la navigazione e la pesca intensiva e porre un freno alle attività di esplorazione distruttiva, come ad esempio l’estrazione mineraria. È bene ricordare che il High Seas Treat è il terzo accordo applicativo della Convenzione delle Nazioni Unite dopo il primo nel 1994 siglato per lo sfruttamento dei fondali marini e, nel 1995, per la conservazione a lungo termine e lo sfruttamento sostenibile degli stock ittici entrambi affetti da numerosi limiti. Inoltre nel 2008 l’Unione Europea ha realizzato una direttiva per raggiungere il buono stato ecologico delle proprie acque marine entro il 2020 attraverso l’utilizzo di 11 descrittori. Nonostante questa direttiva potesse essere un esempio virtuoso per il mondo intero, i Paesi Membri non hanno purtroppo raggiunto ad oggi gli obiettivi prefissati più di 15 anni fa. Per l’ennesima volta, i fatti non hanno seguito i buoni propositi, anche quando questi vengono trasformati in legislazione.
La comunità scientifica di SCB Italy accoglie con grande favore l’accordo appena raggiunto dagli stati membri delle Nazioni Unite sul testo del nuovo trattato globale sull’Alto Mare e si augura che l’Italia sia tra le prime nazioni a ratificare l’accordo e che a questo trattato sia dato un seguito, implementando un efficace piano di azione per assicurare che esso venga messo in pratica e rispettato. A tal proposito, uno strumento molto importante ottenuto dal trattato è l’obbligo di effettuare valutazioni di impatto ambientale delle attività in Alto Mare per tutte le attività che potrebbero influenzare negativamente la biodiversità dell’oceano. Questo permette di interrompere le attività dannose quando necessario. Infine, siccome per la protezione di specie e habitat presenti nella zona dell’Alto Mare sarà necessaria la stipula di trattati internazionali, ci auguriamo che la burocrazia dei Paesi aderenti al trattato non funga da deterrente e/o da limite nella realizzazione di norme utili per limitare attività antropiche dannose per gli ecosistemi marini. Per concludere, la comunità scientifica di SCB Italy ci tiene a ribadire che il tempo dei grandi proclami sulle tematiche ambientali, soprattutto se ci riferiamo al mare, è finito. Perché se è vero che, come ha detto la Presidente della conferenza dell’ONU, Rena Lee, annunciando la stipula del trattato dell’Alto Mare, “La nave ha raggiunto il porto”, ora è anche arrivato il momento di farla ripartire per nuovi viaggi che assicurino agli ecosistemi marini la conservazione a lungo termine.